Abbiamo chiesto a Silvana Cremaschi, Direttore SOC Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza presso Azienda per i servizi sanitari 4 Medio Friuli e Consigliere regionale del PD di illustrarci gli aspetti maggiormente significativi della riforma sanitaria regionale.
Ecco cosa ci ha detto:
Potremmo partire da questa considerazione: Non ci sono più soldi e quindi bisogna tagliare. Ma anche se i soldi ci fossero, bisognerebbe cambiare lo stesso. L’ organizzazione sanitaria attuale è figlia della storia del mondo benestante di questi ultimi due secoli: fare di più, produrre di più, mangiare di più, comprare di più, “usare più farmaci, più ospedali, più interventi”, per “curare di più”…. Questo modello ha prodotto più “sanità” forse, ma non più “salute”; non sempre infatti fare di più significa garantire cure più appropriate… In una società in crescita abbiamo speso sempre di più ma non sempre in modo adeguato rispetto al risultato che intendevamo ottenere.
Il 65% del nostro benessere psico-fisico è dovuto ai “determinanti sociali di salute”, cioè alle condizioni di vita, ambiente, lavoro, alimentazione. Stiamo bene o stiamo male non perché abbiamo o meno un medico vicino ma per altri fattori. Non necessariamente essere più ricchi significa stare più bene. I Paesi nei quali la gente sta meglio sono quelli dove c’è meno divario di reddito fra gli abitanti. Paesi più ricchi ma con un ampio divario di ricchezza fra gli abitanti, hanno indici di salute meno buoni rispetto a quelli di paesi meno ricchi ma con minor divario di reddito fra gli abitanti.
Il concetto stesso di prestazione sanitaria è cambiato negli ultimi 100 anni. I miei nonni erano tisiologi, la tisi era il male dell’epoca, oggi probabilmente sarebbero diventati oncologi. Mia nonna viveva dentro un sanatorio. I sanatori erano strutture pensate per le malattie infettive, i pazienti vi rimanevano ricoverati un anno o anche più, si faceva in modo che stessero bene, riposassero molto, prendessero il sole ecc; oggi chi di noi penserebbe che serve stare un anno in ospedale per curarsi?
Un tempo chi partoriva in ospedale rimaneva ricoverata una settimana o anche due nel caso di parti cesarei. Oggi i tempi di ricovero per un parto sono di 2 giorni e mezzo, massimo 5 per i cesarei con situazioni più complicati.
Ancora 30 anni fa i reparti Pediatria degli ospedali avevano repartoni con camerate di 6, 8, 10 letti pieni di bambini ricoverati. Oggi nei reparti pediatrici non ci sono più bambini ricoverati, vi si svolgono solo le prestazioni ambulatoriali. Nessuno di noi, potendo scegliere, lascerebbe il proprio figlio in ospedale.
Una volta la pressione sanguigna giusta era calcolata in 100 + gli anni di vita della persona. Ora i valori di riferimento sono stati abbassati. Non è che sia cambiato qualcosa, abbiamo solo abbassato il livello. Sono diminuiti per questo i morti di infarto? No. Sono solo un po’ aumentati gli effetti collaterali dei farmaci per la pressione.
Oggi è diventato uno spauracchio il colesterolo. Si è parlato di colesterolo buono e cattivo, si sono cambiati approcci varie volte. Negli USA il burro è praticamente scomparso nell’alimentazione quotidiana, sostituito con la margarina (che non è detto che sia più sana). Negli USA si sono abbassati in media i valori di colesterolo. Sono per questo diminuite le malattie cardiovascolari? La risposta è no.
In medicina non sempre fare di più significa dare più salute. Anche fare ricerca in vista di una verifica puntuale e corretta degli interventi messi in atto pertanto non è facile. È un campo in cui intervengono gli interessi delle case farmaceutiche, i cambiamenti nel benessere, nello stile di vita, nell’alimentazione.
Ogni generazione di figli è stata più alta dei genitori. Solo l’ultima generazione non è più alta della precedente, poiché evidentemente si è raggiunto il massimo potenziale di crescita in altezza per la razza umana. La nuova generazione non è più alta ma sta diventando più “larga”.
Abbiamo sconfitto la polmonite con gli antibiotici. Ma si è creata in noi l’idea che dobbiamo sottoporci continuamente ai check up, e guai se si “sballa” qualche valore.
Un aspetto che la nostra società ha rimosso è quello della morte, che teniamo nascosta e confiniamo negli ospedali. Che senso ha sottopormi a cure sapendo che morirò forse fra 15 o 20 giorni? Che senso ha dare farmaci chemioterapici a un malato terminale, che pare anche accelerino i tempi del decesso, oltre a creare effetti collaterali che peggiorano la qualità di quella vita? Il bisogno di salute è cambiato, fare di più non vuol dire fare meglio. Si fa strada il concetto di slow medicine.
L’obiettivo della riforma sanitaria regionale è quello di dare salute alla popolazione del FVG e di dare le stesse opportunità a tutti, che abitino a Ligosullo o a Marano. Occorre garantire il più possibile equità e fare in modo che nei Livelli Essenziali di Assistenza tutti abbiano ciò che serve.
Se vivo a Ligosullo e mi viene un infarto ho bisogno di qualcuno che mi rianimi. Ma non possiamo fare un Pronto Soccorso con almeno 12 medici più il personale paramedico solo per Ligosullo, dove magari c’è un solo caso di infarto all’anno; per altro il personale che non “fa pratica” perde le competenze acquisite; anche in medicina la pratica vale come e più della grammatica, e una persona sana che vive in Regione di che ha bisogno? Per prima cosa di avere informazioni corrette. Occorre ridare un ruolo centrale al medico di medicina generale, il quale non può essere solo un passacarte. Si investono tanti soldi per creare un medico, poi lo si lascia da solo, senza contatti con altri medici e specialisti, ad affrontare pazienti sempre più complessi, o peggio, li trasformiamo in burocrati e li lasciamo a compilare carte che non incidono sulla salute della gente.
Riguardo al problema degli intasamenti del Pronto Soccorso, credo che la risposta sia complessa; serve un cambio culturale, serve forse inserire un ticket al PS; ma forse serve anche semplificare l’accesso al proprio medico e rendere possibile una reale risposta di cura “completa” nell’ambulatorio del proprio medico; un paziente dovrebbe poter accedere al proprio medico, o ad un infermiere, a tutte le ore della giornata; dovrebbe poter ricevere qualche punto di sutura, la stabilizzazione di una distorsione, una medicazione, un prelievo….
È possibile associare più medici di base, il bacino ottimale viene descritto intorno ai 20.000 abitanti circa, ma potrebbe riguardare anche comunità più piccole, di circa 5000 abitanti, pari ad un paese, un quartiere, una valle. Nello studio associato (reale o virtuale, cioè con diverse sedi ma con collegamento internet, cartelle condivise, informazioni condivise, collaborazioni strutturate per garantire orari più ampi, condivisione di apparecchiature, confronto sulle ipotesi cliniche) collaborano più medici, che non si “fanno le scarpe fra di loro” cercando di rubarsi i clienti e anzi si danno una mano su come curare. Con questo sistema posso tenere l’ambulatorio aperto dalle 8 alle 20.00 facendo in modo che la gente in quella fascia oraria non sia costretta ad andare in Pronto Soccorso. Se i medici si associano in uno stesso ambulatorio, ciascuno può specializzarsi in parte in determinate patologie. Inoltre più medici uniti possono collaborare con uno o due paramedici che partecipano del sistema di cura e favoriscono la “medicina d’iniziativa” e una segretaria che prenda gli appuntamenti.
La “medicina d’iniziativa” consiste in un approccio alla cura della comunità affidata ad un medico o meglio ad un gruppo di medici che prevede che sia il personale dell’ambulatorio ( o casa della salute o come altro vogliamo chiamarlo) che chiama periodicamente i pazienti a rischio ( diabetici, ipertesi, obesi, o con altri disturbi cronici) per un bilancio di salute.
Questa nuova struttura implica un cambiamento culturale che deve partire dalla gente. Oggi mi hanno raccontato un aneddoto: una persona si presenta al medico il venerdì con una distorsione della caviglia; la persona viene visitata, rassicurata, le vengono fatte le opportune prescrizioni. Durante il week end questa stessa persona, non convinta, si presenta al Pronto Soccorso, si fa fare una radiografia, una visita ortopedica, si fa rifare il bendaggio a spese del Servizio Sanitario, e alle fine riceve la conferma di quanto già detto dal medico di base. Domanda retorica: usiamo bene le risorse della sanità permettendo questi comportamenti? L’obiettivo è fare sì che si possa non andare al Pronto Soccorso dalle 8 alle 20 perché si trova con facilità una risposta competente dal proprio medico o dal medico “associato”. E se il medico ha meno pratiche burocratiche da svolgere, riesce anche ad avere più tempo per le cure; e se ha contatto ed accesso con gli specialisti può curare il paziente sentendo il consulente invece che inviare il paziente avanti e indietro tra ospedale ed ambulatorio per avere risposte cartacee. Oggi le tecnologie permettono ad esempio a un operatore di fare un elettrocardiogramma ad Attimis e trasmetterlo in tempo reale per la lettura a uno specialista della cardiologia di Udine, ottenendo subito risposta.
E la notte, al posto del medico di guardia spesso “solo”, che opera a rotazione presso diverse sedi, senza nessuna informazione relativa ai pazienti che gli giungono per situazioni d’urgenza, potrebbe essere di turno un medico di “continuità assistenziale”, che ha esperienza in quel territorio e conosce “quei medici e quei pazienti”, che lavora con “quel” gruppo di medici, che può accedere ai dati clinici delle persone che ricorrono a lui, e che può aggiornare il medico di base il mattino dopo.
Un altro elemento importante per ri-dare autorevolezza al medico di base è il rapporto tra medico di fiducia e specialista: il paziente non deve fare la pallina di ping pong tra medico e specialista; è il medico di base che chiede una consulenza e si fa aiutare a curare meglio il proprio paziente, ma per farlo deve avere un accesso facile, rapido, con un contatto di conoscenza reciproca… il paziente se viene inviato allo specialista, deve avere una lettera d’invio da parte del medico curante che specifica l’ipotesi diagnostica, gli accertamenti eseguiti o richiesti ed il quesito che porta alla consulenza. Ed il medico specialista non “rilascia“ il paziente se non con una lettera dettagliata per il curante che spiega le richieste e le prescrizioni. E se lo specialista richiede esami non rimanda (ping pong) il paziente al curante per le prescrizioni su ricetta rossa, attiva gli approfondimenti e “restituisce” il paziente con la consulenza completa.
Secondo l’OMS il numero ottimale di medici è di 1 ogni 600 abitanti. In Italia ne abbiamo uno ogni 180-200 abitanti.
Prendiamo il caso di un bambino di 4 anni con ritardo del linguaggio in provincia di Udine. I genitori possono portarlo al Distretto di via San Valentino, alla Neuropsichiatria del Gervasutta, alla Nostra Famiglia, poi al Day Hospital della Nostra Famiglia presso l’Ospedale, poi al Burlo, poi alla Fondazione bambini autismo. In tutto fanno 6 percorsi diagnostici che la regione paga perché non esiste un percorso definito considerato LEA ( livello essenziale di assistenza) né sistema informatico che mi permette di effettuare controlli sui doppioni. Alla fine non abbiamo risorse per il trattamento perché le abbiamo usate male in fase diagnostica. Ma è ovvio che dovrei favorire la possibilità di attivare “un” percorso diagnostico gratuitamente o con il pagamento di un solo ticket e poi richiedere il pagamento come visita privata in caso di eventuali altri doppioni. Già questa prassi permetterebbe una maggiore equità di trattamento.
Stessa cosa per chi fa magari 4 visite prima di decidere dove farsi operare una spalla. Forse dobbiamo semplificare. La sanità pubblica deve dare una buona sanità pubblica. Vai dal medico, lui ti manda in un posto e tiene i contatti con lo specialista, tu vai dove ti viene indicato o hai concordato, e se vai da altre parti di tua iniziativa paghi.
Poi c’è una routine di esami e farmaci che potrebbe essere eliminata secondo il principio del choosing wisely. Scegliere in modo accurato e opportuno. È davvero necessario fare i raggi per un caso di sinusite? Quante cose non opportune facciamo di routine? Forse si può evitare di somministrare farmaci oncologici di ultima generazione a un paziente terminale un mese prima della morte. Forse non serve prendere antibiotici per un’influenza, forse non serve prendere polivitaminici e “integratori” se abbiamo un’alimentazione corretta; forse non serve prendere farmaci per dimagrire se facciamo attività motoria. E i farmaci per dormire, per aumentare l’appetito, per ridurre l’appetito, per sentirci più rilassati, per attivarci e rendere di più nello studio e sul lavoro rispondono a bisogni di salute o ad altro? Quanto spendiamo per cose sicuramente inutili e forse dannose?