Dal 1° gennaio 2015 la riforma sanitaria regionale, dopo tante polemiche ed alzate di scudi in particolare nel Gemonese, ha iniziato il suo percorso attuativo. Malgrado non tutti abbiano ancora “rinfoderato le spade”, interessa ora capire come si sta avviando questa trasformazione epocale della sanità e quali sono i tempi di attuazione e le prospettive che si possono già da ora individuare.
Per questo abbiamo sentito il Direttore generale dell’Azienda per l’Assistenza Sanitaria (AAS) n. 3 Alto Friuli, Collinare, Medio Friuli, Dott. Pierpaolo Benetollo.
Il dottor Benetollo ha alle spalle un’esperienza lavorativa importante ed articolata. Avendo iniziato come medico geriatra “sul territorio”, ha via via ricoperto diversi incarichi tra cui quello di Direttore del Distretto Socio-Sanitario n° 4 dell’ULSS 16 “Padova”, di Direttore Sanitario dell’ULSS n°4 “Alto Vicentino” e, prima di assumere l’incarico nella nostra Regione, ha svolto il compito di Direttore sanitario dell’Azienda ospedaliera di Verona, una delle più importanti d’Italia.
La prima domanda viene quindi spontanea.
Cosa ha significato passare da una attività come quella svolta a Verona, alla realtà così diversa che si è trovato ad affrontare qui in Friuli?
E’ noto che io sono l’unico Direttore generale di un AAS “esterno” al sistema sanitario di questa Regione e ciò non è a caso. Evidentemente si è ritenuto che per una situazione complessa come quella dell’Alto Friuli, Collinare e Medio Friuli fosse opportuno avvalersi di una figura esperta e del tutto “nuova” rispetto alle vicende sanitarie del FVG.
D’altra parte la mia precedente attività lavorativa nell’Alto Vicentino si era svolta in una realtà per certi versi simile a questa.
Ho affrontato quindi questa esperienza come un’avventura nuova e professionalmente interessante, senza alcuna remora rispetto alle vicende che hanno preceduto l’avvio di questa riforma: il mio compito è quello di avviare e far funzionare al meglio un’azienda, a partire dalle condizioni che mi sono date.
Ma qual’è stato l’impatto rispetto alla dimensione territoriale così complessa e “squilibrata” dell’AAS 3, che va dalle realtà di alta montagna della Carnia e del Tarvisiano, fino alle zone rurali di pianura del Codroipese?
Le differenze rappresentano in questo caso i punti di partenza per costruire le strategie giuste. Io non parto con l’idea che si debba in qualche modo “assestare” un sistema complicato; la mia prospettiva è invece quella di caratterizzare, valorizzandole, le diverse realtà di questa AAS: sono proprio queste caratteristiche di fondo a rendere interessante il mio compito.
Se guardiamo poi con più attenzione, gli stessi elementi di potenziale criticità rappresentano anche aspetti di opportunità.
L’AAS 3 non ha al suo interno un capoluogo di Provincia. Questo vuol dire che non c’è una polarità forte che rischia di creare gerarchie e squilibri sul proprio territorio.
Non c’è nemmeno un Ospedale cosiddetto “hub” (per intenderci come quello di Udine), che inevitabilmente eserciterebbe una forte attrazione, rischiando di generare sul territorio un centro ed una periferia.
In sostanza, una situazione complessa geograficamente, ma senza grosse differenze di peso tra i centri urbani, può favorire la costruzione di un rapporto ospedale – territorio che attui più agevolmente uno degli obiettivi centrali che stanno alla base della riforma: la continuità della presa in carico dei problemi di salute dei cittadini, che per essere seguiti hanno bisogno di una integrazione fra le cure ospedaliere e quelle territoriali.
A pochi mesi dall’avvio della riforma, a che punto è la sua attuazione e quali i prossimi passaggi?
Il 2015 non può che essere un “anno ponte”, durante il quale si debbono affrontare contemporaneamente più problemi legati all’avvio della riforma.
Le priorità del primo semestre sono:
– garantire la continuità dei servizi ai cittadini, malgrado i vari cambiamenti in atto legati alla riorganizzazione della struttura;
– attuare la costituzione della nuova AAS 3 in tutte le sue componenti.
E’ uno sforzo notevole che sta coinvolgendo tutti, ma direi che, pur essendo a metà del guado, l’obiettivo si sta via via raggiungendo.
Va detto che questa prima fase della riorganizzazione ha prodotto anche del disorientamento, soprattutto nel personale.
Inevitabilmente sono venute a mancare alcune sicurezze, mentre sono subentrate ansia e senso di incertezza.
E’ uno scotto da pagare in questa fase di transizione, che va superato individuando al più presto le linee strategiche di sviluppo, su cui basare le future decisioni.
Infatti il secondo semestre di questo 2015 sarà in particolare dedicato alla costruzione del progetto della nuova ASS 3.
Uno degli elementi di maggior incertezza (e di conflitto) nella nostra realtà è stato il destino dell’Ospedale di Gemona. Che futuro si prospetta realmente per questa struttura?
Come già detto, il percorso appena avviato non potrà che svilupparsi per gradi: il disegno complessivo della riforma e delle funzioni assegnate sul territorio sono già indicate dalla legge e dai successivi atti deliberativi, ma le decisioni operative potranno essere prese solo dopo aver definito un piano strategico più preciso e fondato su conoscenze dirette dei problemi.
Per questo motivo non si è ancora nelle condizioni di prendere decisioni e di fissare dei paletti, pur avendo già delle idee su quali indirizzi sarà opportuno seguire.
Su alcuni aspetti si può già però dare delle certezze: l’ospedale di Gemona non diventerà un capannone vuoto, ma tutti gli spazi verranno utilizzati. Inoltre si può prevedere che vi lavorerà all’incirca la stessa quantità di personale.
L’ipotesi di creare a Gemona un centro di eccellenza dedicato alla riabilitazione è realistica, ma allora l’ospedale deve diventare attrattivo, deve dotarsi dei professionisti “migliori”, deve insomma costruire le condizioni per fornire un’offerta che sia competitiva.
D’altra parte bisogna anche prendere atto che si va sempre più verso la super-specializzazione, superando la funzione tradizionale dell’ospedale come struttura di riferimento generale.
Per questo il mantenimento di un’area di emergenza nell’ospedale di Gemona sarebbe impropria e soprattutto inadeguata, mentre altre funzioni, per il bacino d’utenza dell’intera azienda ed anche oltre, possono essere di grande interesse. Nelle prossime settimane faremo delle proposte concrete.
Passando ai rapporti cosiddetti “istituzionali”, ha colpito l’opinione pubblica il fatto che nella Conferenza dei Sindaci, il Piano Attuativo Locale 2015 (P.A.L.), che è un atto fondamentale della programmazione sanitaria, sia stato bocciato da alcuni Comuni, tra cui Gemona. E inoltre che numerosi Sindaci non fossero presenti alla Conferenza. Che significato attribuisce a queste prese di posizione?
Va precisato innanzitutto che la seduta della Conferenza dei Sindaci in cui si è approvato il P.A.L. era stata preceduta da una in cui il documento di programmazione era stato presentato e discusso alla presenza dei 68 Sindaci interessati, per cui i contenuti erano noti a tutti.
In effetti alla seduta conclusiva per l’approvazione erano presenti 48 Sindaci, tra i quali 3 hanno espresso voto contrario (Gemona, Montenars e Forgaria).
Va anche sottolineato che alla conclusione dei lavori il Presidente della Conferenza ha ritenuto di sottolineare come la riunione fosse stata “vera”, non rituale, e per questo importante.
La contrarietà di alcuni Sindaci non la considero comunque un fatto negativo: fa parte della dialettica democratica e rappresenta comunque un’espressione di vitalità.
Rimango dell’idea che le differenze sono segnali importanti, su cui impostare il lavoro successivo, molto più utili di unanimismi di facciata.
E per quel che riguarda il problema del “pronto soccorso” che ha agitato così tanto le acque nel Gemonese?
La legge di riforma ha previsto a Gemona il mantenimento di un Punto di Primo Intervento; si tratta ora di dettagliarne le funzioni. Peraltro, in presenza, come detto, di un’evoluzione di tutta la Medicina verso la super-specializzazione, non ha più senso che ogni presidio ospedaliero mantenga dei letti di c.d. “area di emergenza”, senza avere alle spalle una struttura capace di affrontare tutti i problemi che si possano presentare.La prospettiva è invece quella di operare con una “rete dell’emergenza” in grado di intervenire in tempi rapidi su tutto il territorio, indirizzando da subito il paziente nella struttura ospedaliera meglio in grado di accoglierlo, cosa che peraltro già sta in parte avvenendo. Ma in questo caso la messa a punto della “Rete dell’emergenza-urgenza” va impostata a scala regionale ed infatti la legge di riforma prevede che la Regione emani un apposito Piano di settore.Solo in presenza di questo Piano si potrà agire anche a livello di AAS