Se arbitrariamente si possono tracciare i confini, le forme e il carattere di una terra su una mappa, allora, altrettanto arbitrariamente, si può fare con le parole. Le descrizioni, come le cartine, sono il risultato di una scelta parziale. Ed è proprio prendendo spunto dalla mappa fisica del Canada che ho deciso di presentare quelli che a me paiono i suoi caratteri più evidenti su tre dimensioni. O meglio, con tre parole. Immensità, gelo e multiculturalità.
Prima di atterrare all’aeroporto di Montreal, l’agosto scorso, tra le poche cose che conoscevo del Canada c’era l’estensione del suo territorio. 9.864.670 chilometri quadrati. Per darvi l’ordine di grandezza, quasi trenta-tre volte la superficie dell’Italia. “A mari usque ad mare” è il motto che circonda lo stemma canadese. L’espressione è stata presa in prestito da un salmo della Vulgata attribuito a Salomone, nel quale si profetizza l’arrivo del messia e il suo dominio spirituale su tutto il mondo, “da mare a mare”. Un motto che calza a pennello con il Canada, le cui coste si affacciano non su due, ma su tre oceani. A nord-ovest, il mitico territorio dello Yukon, reso famoso dalle avventure di Jack London, guarda, immobile, le onde del Mar Glaciale Artico. Scendendo verso sud si arriva nella Provincia “British Columbia”, le cui coste si affacciano sulle ben più miti correnti dell’Oceano Pacifico, che rende l’inverno più sopportabile a chi vive nella grande città dell’ovest canadese, Vancouver. Proseguendo verso est, e lasciandosi quindi alle spalle l’oceano, si scoprono le Rocky Mountains, o Montagne Rocciose, che scendono fino al cuore degli Stati Uniti.
Valicate queste splendide pareti di roccia, chi volesse viaggiare da costa a costa, in Canada, scoprirebbe le Province “Alberta”, “Saskatchewan” e “Manitoba”. Terre di agricoltura, miniere e risorse naturali. E, anche se non molto popolate, bacini elettorali “sicuri” del Partito Conservatore. Forza politica che è alla guida del Paese, in modo traballante (almeno nei primi anni), dal 2006, e che si trova all’opposizione i liberali e i neo-democratici. Il vero grande bacino elettorale dei conservatori, tuttavia, almeno alle passate elezioni federali, è l’Ontario. Provincia che ospita la capitale del Paese, Ottawa, e il centro più popoloso di tutto il Canada, Toronto. Città che distano relativamente poco dall’altra grande Provincia orientale, il Québec. Terra, questa, che si distingue dalle altre in molti aspetti. Fra tutti, la lingua. È il francese quella ufficiale, non l’inglese. Ma anche il colore politico, essendo il Québec la terra più di sinistra (neo-democratica) tra le Province canadesi. Proseguendo ancora verso est, il viaggiatore scoprirebbe, infine, le Province del “New Brunswick”, “Nova Scotia”, “Prince Edward Island”, “Newfoundland and Labrador”. Terre che si affacciano sul terzo oceano che lambisce le coste canadesi, l’Atlantico.
A tutto questo, in sei mesi io non ho dato che un’occhiata. Atterrato a Montreal a fine agosto, mi sono subito trasferito ad Ottawa per frequentare un quadrimestre in una delle università locali grazie ad un accordo di scambio che lega questa al mio ateneo, a Trento. Devo dire che dietro alla mia scelta di vivere in Canada non ci sono grandi motivazioni. Non ero particolarmente interessato a quel Paese, ma ho ugualmente provato a fare richiesta per trascorrervi qualche mese. Così, “per sport”, come si suol dire. Una volta che sono stato selezionato, ho deciso di buttarmi e provare quest’esperienza. Conoscevo la reputazione dell’università ospitante, in grado di offrire buoni corsi su tematiche di cui sono molto appassionato, come le relazioni internazionali. Mi sono detto, poi, che qualche mese in un Paese che sta ancora sotto la corona della vecchia Elisabetta II (testimoni ne sono le banconote) avrebbe fatto bene al mio inglese. Senza il rischio, tuttavia, di prendere quel terribile accento britannico (!). A spingermi verso il Canada c’era, infine, quello che potrei chiamare un’”attrazione metafisica”, sicuramente acquisita da parte di padre, verso la parte più fredda, impassibile ed estrema della natura.
Una natura di cui, tuttavia, non mi sono reso conto nei primi mesi di soggiorno. Ero troppo occupato a girovagare nei bei parchi curati dentro e fuori Ottawa. A costeggiarvi il fiume e il famoso canale artificiale, patrimonio dell’Unesco. A rilassarmi al sole di settembre, che per qualche tempo mi ha fatto pensare che il gelo canadese non fosse altro che un mito per tenere alla larga i richiedenti asilo siriani. Stratagemma che ha funzionato visto che il governo canadese è stato tra i meno liberali e solerti nell’accettarli dall’inizio del conflitto. E come si può dar torto alla leadership conservatrice. Avere migliaia di abbienti con le barbe lunghe e carnagione scura che assomigliano molto a quelli che appaiono nei telegiornali, sopra le newsline che recitano “Is”, avrebbe sicuramente turbato la popolazione canadese. Soprattutto sotto periodo elettorale (le urne si apriranno, in teoria, ad ottobre).
Ad ogni modo, ho trovato paradossale questa ansia, tipica dei più Salviniani, nella classe politica di un Paese la cui popolazione è costituita da canadesi con il trattino. Non bisogna dimenticare, infatti, che il Canada è un Paese storicamente di immigrazione. A differenza dell’Italia, che, non scavando troppo a fondo nella storia, è stato un bacino di manovalanza di quasi tutto il mondo per gran parte del ‘900, il Canada è nato, o meglio si è alimentato di quella manovalanza. Il suo popolo conta, oggi, circa 35 milioni di cittadini (un po’ più della metà di quelli italiani!), concentrati nelle città nate lungo il confine con gli Stati Uniti, come Québec City, Montreal, Ottawa, Toronto, Winnipeg, Calgary e Vancouver. E anche se ci si mettesse una vita a limare le differenze tra questi 35 milioni di persone, difficilmente si riuscirebbe ad abbozzare lo stereotipo, almeno esteriore, del canadese medio. Tedesco-canadese, cino-canadese, libano-canadese, russo-canadese. Non che tutti abbiano la doppia cittadinanza, ma molti di quelli che ho conosciuto parlano, oltre all’inglese, la lingua delle loro origini. E ne seguono le tradizioni, riuscendo allo stesso tempo a vivere nel rispetto degli altri.
Tra questi, ci sono ovviamente anche gli italo-canadesi. Che da bravi pasticcioni hanno deciso di mettere insieme l’inglese e l’italiano, o meglio i suoi dialetti, per formare una lingua dalle tinte mediterranee e dalla semplicità anglica. Un’operazione di alta ingegneria i cui risultati si possono ascoltare passeggiando lungo le vie della piccola Little Italy di Ottawa, dove ci si può imbattere in capannelli di vecchiette sull’ottantina che si scambiano i saluti della domenica in inglese-napoletano. Al di là degli scherzi, credo che noi italiani, e la nostra classe politica, dobbiamo prendere esempio dall’approccio all’identità dei canadesi. In un mondo in cui sentiamo più spesso la parola globalizzazione dell’inno di Mameli, dobbiamo capire che è ora di voltare pagina.