Emigrants Racconti

9 luglio 1949. Finalmente a Gemona

L’incredibile storia di Arnaldo Canciani (Centurion) in Albania dal 1929 al 1949.

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Gemonesi e friulani a Tirana nel 1930. Arnaldo Canciani è il ragazzino a sx della bara.

Mio Padre, Canciani Giovanni Angelo (Agnûl Centurion) era nato a Gemona nel novembre 1885. Come la maggior parte dei friulani, era stato costretto ad emigrare in diversi paesi europei: agli inizi del 900 in Romania, poi in Germania. Rientrò in Italia a fare il soldato di trincea nella prima guerra mondiale, dove rimase ferito. Riprese poi a girare per lavoro: Napoli, Roma, Sardegna. In uno dei rari rientri a Gemona si sposa con Ida Urbani, mia madre. Io nasco il 25 novembre 1923 e due anni dopo mia sorella Irene.

La partenza per l’Albania. A causa del regime fascista mio padre, nel 1928,  fu costretto a emigrare. Scelse l’Albania. Noi lo raggiungemmo nel 1930. La casa che ci ospitava  Tirana era composta da due stanze al piano terra alle quali si accedeva attraverso un cortile promiscuo ad altre famiglie (musulmane e ortodosse) e  un gabinetto in comune nel cortile all’interno. La si trovavano anche un fratello e alcuni nipoti del Monsignor Monai, arciprete a Gemona, Pietro Boezio e la famiglia Zamolo.

Unico diversivo: uscire la domenica con i miei genitori. I friulani si ritrovavano tutti in un osteria all’inizio di via Dibra, o in alternativa in una birreria di via Elbasan.  All’epoca in Albania c’era la monarchia: Ameth Zog si era proclamato Re e governava il paese con pugno di ferro. Tutti i giovedì, sulla piazza del mercato di Tirana, venivano eseguite le condanne a morte per impiccagione.

Nasce Albina. Il 1 luglio 1931 nacque a Tirana mia sorella Albina.  Nelle due stanze fatiscenti e malsane non era più possibile rimanere, dormivamo in cinque in una stanza. Fummo costretti a trasferirci in un’altra casa. 

1034 campi petroliferi ai Devoli

1034 campi petroliferi ai Devoli

Ricerche petrolifere. Erano già trascorsi quattro anni di grandi disagi sacrifici, dal nostro arrivo in Albania: nel 1934 mio padre lasciò Tirana e si trasferì a Kuciova piccolo paesino sulle rive del fiume dei Devoli. L’Italia aveva ottenuto dal governo albanese in questa zona una concessione per le ricerche petrolifere. Fu il periodo più spensierato per me; avevo concluso le elementari ed ero sempre fuori a caccia d’inverno e a pesca d’estate.  Feci anche il sacrestano, ma venni “licenziato” perché, un giorno,  per fame, mangiai tutte le ostie. Conoscemmo la famiglia della maestra Iolanda Silvestri, di Timau e nacque tra noi una sincera e fraterna amicizia. Margherita, la madre, nella guerra con l’Austria del 1915 era una “portatrice carnica” e riforniva le truppe al fronte. Fu decorata ed oggi una via del paese è intitolata a suo nome.

Una piccola Italia. In quel periodo furono avviati i lavori per la costruzione di una nuova scuola, dell’ospedale, della Chiesa e del dopolavoro. Molti operai e molte nuove famiglie arrivarono dall’Italia, soprattutto emiliani. Il paese era diventato un’isola italiana inserita nel contesto albanese, con molti pregi ed alcuni difetti: la propaganda fascista era molto presente e la tessera indispensabile per ottenere agevolazioni. Mio padre non si adattava a subire certe imposizioni e si trasferì a Tirana. Lo raggiunsi nell’autunno del 1937,  lavorai come apprendista in una officina meccanica e dopo 6 mesi, non riuscendo a seguirmi, mi rimandò ai Devoli dove venni assunto come apprendista nella società petrolifera. Mio maestro sul lavoro fu un tal Dariol Silvio, persona comprensiva, intelligente e disponibile, amante della poesia.

Don Mario Morandi, bergamasco, era venuto tra noi a Devoli come parroco ed insegnante. Uomo colto, umile, disponibile, ufficiale nella guerra del 1914-18, aveva combattuto e sofferto con i suoi soldati. Ritornato alla vita civile amareggiato e deluso, era diventato sacerdote esercitando l’apostolato nelle carceri e manicomi. Nella nostra parrocchia aveva riunito tutti i giovani e creato la corale. Al di là di quelle che possono essere state o sono oggi le mie convinzioni religiose, mi reputo fortunato di averlo incontrato, di aver potuto dialogare e discutere con lui, profondo conoscitore dell’animo umano. Mi chiamava benevolmente “ il cittadino che protesta”.

1939 I gemonesi rientrano in Albania dopo l'invasione dell'Italia.

1939 I gemonesi rientrano in Albania dopo l’invasione dell’Italia.

L’invasione italiana dell’Albania. Nella notte dell’otto aprile 1939, fummo svegliati verso le tre del mattino, il tempo di vestirsi per raccogliere poche cose in una sola valigia, salimmo sui camion alla volta di Valona. Ci imbarcarono sull’incrociatore Pola e ci sbarcarono a Monopoli. I militari del battaglione San Marco che dovevano sbarcare nel pomeriggio in Albania, si chiesero informazioni e notizie sulla situazione locale.

L’occupazione dell’Albania da parte dell’Esercito Italiano si concluse in pochi giorni; ci furono solo rari casi sporadici di resistenza, ma in breve tutto ritornò alla normalità, e così rientrammo a Devoli. Nel 1940 crebbe notevolmente il flusso di militari italiani di tutte le armi in Albania. Un giorno, mia madre incontrò per strada un soldato di Gemona, Artico Luigi che divenne amico di famiglia e frequentò la nostra casa assieme ad altri friulani conosciuti in quel periodo.

L’occupazione della Grecia. La campagna di Grecia si concluse nell’estate del 41. Costò la vita a 14.000 soldati e il ferimento di 38.000.

1941, a Gemona.  A 18  anni ebbi finalmente la possibilità di tornare a Gemona che avevo lasciato all’età di 6 anni. Alla stazione mi attendevano lo zio Giuseppe fratello di mia madre, fui ospite della loro casa in via Paludo per tutto il periodo della mia permanenza. Fu un periodo bellissimo per me: le amicizie, i primi amori, la vendemmia,… Il rientro in Albania a ottobre fu molto triste.

Le lacrime di mio padre. L’anno successivo, in gennaio, fui chiamato alle armi. Mio padre mi accompagnò alla fermata della corriera, quando lo salutai, vidi per la prima volta le lacrime solcare il suo volto. Rimasi  poco però in servizio. L’Italia aveva bisogno del petrolio dell’Albania  ed io, operaio specializzato,  ero più utile in fabbrica.

1943 bombardamenti inglesi ai Devoli

1943 bombardamenti inglesi ai Devoli

8 settembre 1943. Frequenti erano le incursioni aeree e i bombardamenti alleati. Il 12 novembre 1943, decine d’aerei inglesi da bombardamento, ad ondate successive, sganciarono centinaia di spezzoni. lo ed il mio maestro Dariol, a causa del rumore delle macchine in officina, non avevamo udito il segnale d’allarme; fuggimmo di corsa verso la portineria e ci buttammo a terra. Quando cessarono gli scoppi, si vedeva del fumo in direzione della casa di Dariol; uno spezzone gli aveva ucciso la moglie, una figlia e ferita la madre.

1944, il giuramento.  Il 12 di marzo i tedeschi ordinarono a tutti gli italiani che erano stati inquadrati nella quinta compagnia  di presentarsi ad una adunata per il giuramento di fedeltà. Il capitano dei tedeschi, uomo basso e tarchiato, si diresse verso il centro del quadrato dove era stato posto un tavolino coperto dalla bandiera con la croce uncinata e iniziò la formula del giuramento. La nostra risposta fu quasi unanime: NO.

Ottobre 1944, la partenza dei tedeschi.
Per evitare l’accerchiamento le truppe tedesche decisero di ritirarsi verso nord, dopo aver fatto saltare i macchinari. Noi italiani, considerati degli occupatori e fascisti, saremmo rimasti alla mercè delle truppe partigiane, senza alcuna protezione. Decidemmo di rimanere e non seguire le truppe in fuga, sperando nonostante questo handicap in un futuro migliore.

Si torna al lavoro.  Riparammo le macchine riparabili, riportammo le macchine che avevamo nascoste durante i bombardamenti e così il lavoro  potè riprendere.  Non essendo in loco manodopera specializzata, il regime comunista che si era instaurato, ci fece  riprendere le precedenti attività.   Per 6 mesi non ci furono pagati gli stipendi e iniziarono le prime perquisizioni alla nostre case. Il direttore del cantiere e il suo vice,  italiani, vennero incarcerati e durante un trasferimento uccisi.

Prigionieri del regime di Henver Hoxha

Prigionieri del regime di Henver Hoxha

L’arte di arrangiarsi. Nei giorni estivi con mio padre andavamo a riparare le case danneggiate dai bombardamenti. Erano fatiscenti: le pareti fatte con rami d’albero intrecciati e fango. Il compenso spesso era in prodotti ortofrutticoli. Altra piccole integrazione di reddito venivano dalla vendita di accendini che costruivo in officina, eludendo la sorveglianza, con l’alluminio ricavato delle pale degli aerei abbattuti  oppure dallo smercio di fiaschi di gasolio. A fine anno nel 1944 ci fu dato un acconto.

 1945, l’esperienza sindacale. Io, da antifascista, immaginavo che il comunismo in Albania dovesse  adoperasi ad alleviare le sofferenze della povera gente. La realtà però fu molto diversa. Agli inizi del 45 venni eletto, con un mio  collega  a rappresentare i lavoratori italiani di Devoli al congresso nazionale del sindacato a Tirana e mi accorsi che il ruolo dei dirigenti sindacali era di controllo sui lavoratori e di trasmissione  passiva delle decisioni del partito.

Giovani antifascisti. Per favorire nei cantieri momenti di incontro e di ricreazione, utili ad alleviare la durezza, frammista a paura  della quotidianità,  costituimmo il circolo  Giovani antifascisti italiani (GAI) e potemmo così usufruire di un locale del Dopolavoro. Abbiamo vissuto  momenti intensi insieme: alcuni di noi si dedicarono anche al teatro e altri a far uscire un giornalino murale. Un sogno ci accomunava,  rientrare in Italia. I militari italiani, a seguito di un accordo tra governi, vennero rimpatriati; noi operai no: servivano alla ricostruzione del paese.

1946, un anno difficile. Durante un incontro sindacale a Tirana, chiesi di incontrare il Ministro dell’industria per parlare dei problemi dei lavoratori italiani e del loro possibile rimpatrio. L’incontro, cordiale, non fu incoraggiante, ma un piccolo risultato lo raggiunse: nei mesi successivi furono  rimpatriati 41 lavoratori con salute cagionevole. Il 28 marzo fummo convocati dalle autorità politiche, che ci imposero di sciogliere il circolo giovanile (GAI) e ci chiesero di aderire ai “Giovani comunisti albanesi”, proposta che nessuno di noi accettò. Terminò così anche l’esperienza di delegato sindacale. Seguì un periodo difficile: fui costretto a cambiare casa e mio padre, a 61 anni, ricevette l’ordine di trasferirsi a lavorare prima  nel nord dell’Albania, in una zona montuosa e impervia al confine con la Iugoslavia e poi in miniera. Parlai, di questo, con il nuovo direttore e commisi una grossa imprudenza, affermai che si stavano comportando come mercanti di schiavi. Il 4 ottobre mi diedero 3 giorni di tempo per trasferirmi a Rubik, una località mineraria dell’interno. Venni a sapere, in loco,  da un albanese che aveva lavorato nella segheria da Silverio a Timau, di stare in guardia, perché ero considerato dalla Commissione politica “soggetto da sorvegliare”.

A Tirana. A febbraio eravamo di nuovo insieme a Tirana, in una fatiscente camera d’albergo. La mia presenza nella capitale era diventata un punto di riferimento per molti italiani dei Devoli e di Rubik. C’incontravamo in un locale, sul boulevard, per scambiarci, notizie, ricordi e speranze. La situazione alimentare era critica: i generi di prima necessità erano razionati. La coda d’avanti ai negozi iniziava alle quattro di mattina.

La repressione del regime coinvolse anche persone di nostra conoscenza.  Venne arrestato il dott. Mandolini, suor Pasquina e padre Sclavini che conoscevamo da quando eravamo ai Devoli. Mandolini era un medico di una straordinaria umanità: torturato in prigione, venne condannato a morte, poi commutata a 101 di carcere a seguito dell’interessamento dell’onorevole Di Vittorio, ridotta a 20 anni e in parte scontata nelle corsie del reparto malattie infettive  di Tirana. Li incontrò, da malato, il suo peggiore aguzzino che quando lo vide si nascose. Mandolini lo rassicurò che lo avrebbe curato come gli altri. A metà del 1948  Tito venne scomunicato da Mosca, in quasotcjsgnelnto aveva rivendicato la propria autonomia nei rapporti internazionali. Tutti gli iugoslavi vennero espulsi.

1949, finalmente a  Gemona. Il 18 aprile 1949, avvertirono mio padre di partire subito per Durazzo e presentarsi al porto per l’imbarco. Per noi fu come un fulmine a ciel sereno, nessuno si aspettava una decisione così repentina, con soli 3 giorni di preavvisoIl mare, la permanenza a Latina e infine, finalmente, dopo 22 anni trascorsi in Albania, mio padre, noi, il 9 luglio 1949 rivediamo Gemona.  Quando arrivammo alla stazione, guardai in alto verso la montagna e rammentai alcuni versi d’un poeta anonimo: “Bella Gemona, candida sul lento declivio de la verde alpe adagiata, sul tuo capo fantastico di fata, coronano le rupi e bacia il vento, lambendo, del suo chiaro argento, la veste, per la valle abbandonata, ti mormora con lena infaticata la leggenda dalle Alpi al Tagliamento.”

 

 

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2 comments

    • Sandro Cargnelutti

      Condivido l’approccio: la risposta deve considerare sempre l’integrazione dei servizi per il corretto conferimento (se non ci sono), la sensibilizzazione alla cura di questa risorsa straordinaria e unica che è il territorio, anche quello “ferito” e le azioni di controllo / repressione.

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