Montagne-risorse. Le nostre montagne offrivano una varietà di prodotti necessari alla sopravvivenza : legname e carbone, foraggio e pascolo, frutti di bosco e funghi. Il pascolo e il foraggio rendevano possibile le produzione di latte, formaggio, burro e ricotta. Il Cuarnàn e il versante meridionale della catena del Cjampòn garantivano le riserve di foraggio agli animali durante il riposo vegetativo, il versante settentrionale del Cjampòn offriva terreni per il pascolo del bestiame durante i mesi estivi e il taglio del legname.
Il ciclo del foraggio. La fienagione. In primavera si effettuava la pulizia dei prati (farcadiss), qualcuno concimava (si portava la cenere sui prati), si toglievano le pietre per guadagnare superficie utile, si tagliavano gli arbusti e le malerbe. Agli ultimi di giugno iniziava lo sfalcio nella parte bassa di Cuarnàn (Suviàis), a luglio nelle zone di mezza quota (Foredôr e parte del Cuarnàn), ad agosto nelle parti alte (Vualbìnis). In una stagione si faceva un taglio, raramente due (Suviàis o in prossimità degli stavoli di Ledis). Il lavoro di fienagione nelle sue diverse fasi – sfalcio, asciugatura e raccolta – si concludevano con l’allestimento di grandi covoni di fieno (la mede) a forma di grande pera sostenuti da un palo centrale. Ogni “mede” pesava 8, 9 quintali. Il fieno non veniva portato subito a valle perché non c’era il posto dove metterlo (toblât). Dove non si riusciva a falciare si strappava il patùs (con la mano o con la sèsule ), che veniva utilizzato per fare il letto alle mucche.
Racconti “das Vualbìnis”. Cosa c’è scritto nel libro di toponomastica scritto da Rino Gubiani e Enos Costantini sotto la voce di “Vualbìne”: ampio vallone sul versante sud dell’anfiteatro compreso tra il Cjampòn e il Faéit e degradante verso la valle della Vedronza. La ricchezza di toponimi e la frammentazione delle proprietà sono un indicatore della passata, intensa, antropizzazione di questi luoghi. Fino agli anni ’50 qui salivano per la fienagione quasi tutti gli agricoltori di Stalis.
Testimonianza: Copetti Maria (Tei) Avevo 10 anni quando salivo con papà “tas Vualbìnis di Cjampòn”, prima con mia sorella più grande poi con mio fratello di 5 anni. Ci fermavamo “su” per diversi giorni, scendendo a Gemona una volta alla settimana.
La sera si preparava la “cogarìe” (tre pietre per fare fuoco e metterci la cjalderie), si faceva la polenta e spesso si mettevano le cipolle (abbrustolite e lesse) e le patate a cuocere nelle braci. Il fieno veniva raccolto in “fas” e trasportato sulla testa fino al cordino. Qui si faceva la “mede“. Poi, quando il fieno serviva, facevamo di nuovo i fas per mandarli giù con la teleferica, scaricarli e portarli sulla testa fino in Foredôr, caricarli su “lis ôgis” e giù a casa. Noi bambini scendevamo fino alla “Vedrònge” per prendere acqua o, dietro Cjampón, per raccogliere un po’ di legna e preparare la “cogarìe”.
Storiis.
– Un Brût (sorenon di famee), ha scritto questa lettera alla sua ragazza di Gemona che lavorava nella filanda di Monselice. “Ti miro e ti sguardo contro monte Segola (Monselice), sono a fare il fieno nel Monte del Chiappo (Vualbìnis) e addio”. Amici venuti a conoscenza della lettera gli chiesero: “Ce pajâresistu a veile dongje?” – “Se no dute almancul lis còtulis (almeno le gonne)” rispose con pronuncia nasale il Brût.
– In tas Vualbìnis, padre e figlio (da famèe dai Brûs) erano a fare fieno. Di tanto in tanto alcune pietre rotolavano e chi era sopra informava (al vosâve) quello sotto. “Pari, Pari al è partît un clap” urlò una volta Nardin al padre e il padre per tutta risposta “Nardin, nol è un clap, al à lis orêlis”. Infatti era la polenta avvolta da un tovagliolo annodato che stava rotolando a valle.
– In Cuarnàn a fâ fen. Lo zio dice al nipote che scendeva in Stalis: “Cuant che tu tornis sù puartimi i spagnolès” (Quando ritorni su portami le sigarette). Il nipote torna su senza sigarette e, in vena di scherzi, gli dice “Barbe, no si podève jentrâ in cjâse vuestre che al ere plen di soldâts che a balavin cun la femine”. Lo zio prende la falce e al grido di “Savoia”, scende rapidamente a casa per battere la moglie che non sapeva nulla.
– Zuan di Lôr era a falciare in Foredôr; passa una persona di Pers e gli domanda che ora è. L’altro risponde: “Saranno le dieci, dieci e mezza, undici”. “Can da l’ostie di Sclâf” bofonchia Zuan. “No podevistu dî, daurman, che al ere miesdì?”.
– Nel 1944, Davide Copetti, in “serade” (autunno), ha portato il fieno da Ledis in Praduline (sotto Foredôr verso la Vedrònge) per paura di rappresaglie. Nella primavera del ’45, a causa della guerra, ha portato gli animali in Ledis prima del tempo. Finito il fieno di Ledis ha riportato il fieno dalla Praduline fino in Ledis.
L’acqua era fondamentale durante la fienagione (per dissetarsi, fare la polenta la sera,…) ma non era sempre a portata di “gavetta”. L’acqua più prossima per chi era “tas Vualbìnis” era la sorgente “Tòfe” oppure, quando questa era in secca, la Vedrònge; chi era in Cuarnàn, a seconda della posizione, utilizzava la sorgente di Picignìc (versante che dà su Montenars) o Trasséit (versante che dà su Stalis) o tal Puintuç di Sière. Chi saliva in Cjampón per il sentiero di Foredôr prendeva l’acqua in Cjarârs o, se era sotto l’Ambruséit, presso il Fontanàt.
Il cibo. I prodotti base erano: la farina, il lardo, le patate e il formaggio, alle volte la verdura magari già cotta e il salame. Il vino in estate era già finito e quando faceva tanto caldo si aggiungevano all’acqua delle gocce di aceto.
Quando, alla sera, si accendevano i fuochi in Cuarnàn e in Cjampón il paesaggio diventava quasi un presepe. Tutti sapevano chi c’era attorno al fuoco; condividere la fatica e la notte con molti altri faceva sentire meno soli e la fatica meno pesante.
La notte. Non si scendeva a dormire a casa, ci si fermava anche per settimane in ricoveri di fortuna. Il materasso era fatto con frasche e fieno. Sopra la testa e sotto le stelle dei sacchi di iuta, un telo (la tende), oppure strutture più elaborate fatte con frasche di sorbo (melès) o salice (molec), coperte con teli (la cjasute). Dove era possibile si utilizzavano ricoveri naturali (nelle Vualbìnis ricordiamo il Cret da l’Agnel, la Crete di Malvedut).
I pericoli. Le pendenze molte volte erano notevoli e bisognava lavorare scalzi così migliorava la sensibilità del piede e l’aderenza. I temporali estivi, sopratutto notturni, mettevano paura soprattutto ai bambini.
Il trasporto del fieno. In autunno, prima di trasportare il fieno a valle, si faceva la manutenzione alle strade (uno o due per famiglia). A ottobre iniziava il trasporto del fieno a valle, “cul fas e la ôge“; il trasporto poteva effettuarsi (a seconda delle possibilità di sistemazione) anche in inverno e in primavera; di solito si procedeva con 4 ôgis attaccate e 4, 5 persone. Se c’era ghiaccio o il percorso era ripido veniva messa la catena nelle scie; gli uomini mettevano i “grips” sotto i piedi. La ôge era fatta per lo più di orniello (vuâr), frassino e faggio (ôgions); le traverse di solito in corniolo (legno molto duro). Una ôge portava 2 quintali di fieno, cuatri ôgis portavano a valle une mede. Le principali strade percorribili con la ôge erano: la strade di Fontanis, la strade di Foredôr, la strade di Cuarnàn e la strade di Sière. Dalle strade principali dipartivano diverse piste secondarie. Lungo la strada erano predisposti degli appositi muretti in pietra per favorire le soste.
Il bestiame al pascolo. In Ledis c’erano molti stavoli (Barbìn, Faliscje, Cràue, Lon, Pipìn, Pontèl, Scugjelârs, Tìchigne) e 4 casere di proprietà del Comune: Butêghis, Glèriis, Bombasìne, Legnàm e una privata in Scriç. La prima ad essere abbandonata è stata la casera di Bombasìne nel 1930 (caricata da un certo Buldog di Stalis). Nel 1954 quella di Butêghis (Bróilis), nel 1958 Glèriis (ultima monticazione Bocjute), nel 1956 Legnàm (Prajàcus e Barbìns), negli anni 60 Scriç. Le aree a pascolo abbandonate vennero rimboschite. I rimboschimenti più antichi risalgono agli anni 1928-’30 in Bombasìne, seguono quelli di Poçùts nel 1954-’63, Legnàm nel 1958, Glèriis nel 1959’60. Prima di portare gli animali nelle casere, questi soggiornavano negli stavoli in Ledis (fine maggio, inizio giugno) e poi venivano riportati a fine agosto, inizio settembre, prima di scendere a Gemona. Si dice che le mucche “sentivano” quando si partiva per salire in Ledis e qualcuna scappava e arrivava in Ledis da sola.
Il carbone e il legname.I boschi di Ledis erano tutti comunali e andavano all’asta. Solo i prati in prossimità degli stavoli erano privati e parte della Mont dal Soreli. Molte persone salivano per portare giù della legna per necessità e sopravvivenza (stangjs e boris). La forestale di solito non interveniva. Oltre al legname si faceva anche il carbone. Con 7 quintali di legna si faceva un quintale di carbone. Si trasportava più facilmente e veniva ricercato per certe attività lavorative (fâris,…). Ma come si faceva il carbone? Il segreto era carbonizzare il legno senza bruciarlo, cuocerlo senza fiamma. La struttura per cuocerlo, chiamata “puiàte”, era composta da 3 pali e da legna accatastate in verticale, il tutto ricoperto da frasche e terra. Si facevano “puiàtis” da 20 q., qualcuno arrivava a 40 (Tisinai). Quelle realizzate dalla ditta di Belluno, Cadò, sfioravano i 150 quintali. La ditta Cadò, che aveva in appalto i lavori, aveva portato in Ledis a cavallo degli anni ’40, scendevano carichi di carbone. Io spesso mi addormentavo durante la pausa “in Poçolóns“. La sera portavamo il carico da Falomo.
Le donne in montagna. Commenti e ricordi. “Le donne in montagna lavoravano come gli uomini.” “Una donna ha partorito sotto il Menedôr (Cargnelutti Maria), scendendo dal Cjampòn; un’altra, moglie di un Cuelàm, ha stentato ad arrivare a casa par partorire. Era normale che le donne al settimo mese andassero a fare fieno sul monte, anche in Cjampòn.” “Le donne dipendenti della ditta Cadò che tagliava il legname in Ledis, a 7 giorni dal parto, erano già al lavoro. Mi ricordo che venivano a prendere il latte in casera Butêghis.”
“Dicono che le donne erano schiave: ma in quel tempo tutti erano schiavi, perché non c’erano soldi.”
Conclusioni
Nessuna di queste persone, con cui ho trascorso un pomeriggio speciale, ha espresso naturalmente nostalgia della miseria, degli stenti e della fame patita in quel periodo. Ma, nonostante quella situazione, molti concordavano sul fatto che la gente, allora, era più contenta, la risata più pronta e c’era maggiore unione e solidarietà. Ritornando a casa per un attimo ho pensato che adesso viviamo in una società al contrario. Ricchi di cose superflue non siamo più contenti e ci sentiamo più insicuri e soli.