Racconti

Il cielo di roccia

Negli anni 50 e 60 lavoravano nelle miniere di Raibl una trentina di gemonesi. A testimonianza di queste dure esperienze di lavoro ricordiamo la storia di Patat Pietro, da famee dai Giupès.

Minatori di Gemona a Cave

Minatori di Gemona in un momento conviviale. Pietro Patat il primo a dx

Raibl, presso Tarvisio,  è l’antico nome di Cave del Predil.

Negli anni ’60 ospitava circa 2.100 persone, nel 1991 la miniera ha chiuso i battenti; oggi gli abitanti rimasti sono poco più di quattrocento per lo più anziani.

La miniera è stata, per i residenti di Cave, la loro vita, la loro gioia e la loro morte. Il bersaglio delle maledizioni, il difficile lavoro che non perdona gli errori, la casa, la vita sociale, il loro destino. Sembra che quella miniera fosse nota fin da 800 anni prima di Cristo, quando il minerale veniva raccolto da strati superficiali, scaldato nel fuoco dei crogioli per estrarre ferro, piombo e zinco. I primi documenti storici risalgono al 1.320 d.c.

Patat Pietro da famee dai Giupès è nato a Gemona,  il 3 maggio del 1927. A 16 anni iniziò a lavorare in galleria a Trieste per poi trasferirsi, a 21 anni, a Cave dove rimase fino all’ottobre del 1979 quando andò in pensione: 36 anni di lavoro duro nelle viscere delle montagne come martellista, capoturno e poi sorvegliante. L’ultimo periodo di lavoro lo trascorse ad oltre 600 metri di profondità.

Non solo lui.  La domenica pomeriggio, racconta la moglie, si trovavano tutti alla stazione di Gemona per prendere il treno per Tarvisio con altri colleghi che arrivavano dalla “Pedemontana” (da Cornino, Forgaria, Pinzano…).

Il lavoro in miniera. Si predisponevano i fori per inserire la dinamite (cariche) che si facevano esplodere in sequenza precisa (volate). Le esplosioni esterne erano precedute dal suono della sirena che preannunciava la possibile ricaduta di pietre nel piccolo centro urbano. Il disgaggio, il caricamento del materiale sul trenino, l’armatura della galleria, il trasferimento del materiale in superficie, la separazione del minerale dalla roccia (sterile), costituivano le fasi di lavorazione successive e permettevano  di estendere così le gallerie nelle viscere della montagna. Un formicaio all’incontrario.

 Un mestiere pericoloso. Il figlio Paolo, che ha abitato a Cave per alcuni anni, ricorda che quando suonavano le sirene fuori ordinanza (non in occasione dello scoppio delle mine, che avveniva giornalmente verso le 10 e le 15 di tutti i giorni lavorativi), nel paese calava un silenzio irreale. Tutto si fermava, rimaneva in sospensione: in  miniera era successo un incidente che spesso era mortale.

I rischi erano maggiori durante i collegamenti verticali tra le gallerie situate a profondità diverse. Ma il pericolo per i lavoratori assumeva anche forme più subdole: l’ambiente insalubre, la polvere che si depositava nei polmoni, col tempo, provocava l’insorgere di una malattia: la silicosi. Si sviluppava dopo una lunga esposizione e causava insufficienza respiratoria e la predisposizione ad altre patologie.

Il terremoto. Nel 1976, a Cave, i minatori non si accorsero subito del terremoto, erano abituati alle scosse. Infatti una caratteristica della miniera erano i cosiddetti “colpi di tensione”, piccoli movimenti tellurici dovuti all’assestamento geologico, che talvolta provocavano crolli in galleria. Si resero conto che si trattava di terremoto solo dopo avere visto i camini delle abitazioni caduti.

Racconta la moglie: “In tenda, con la casa distrutta, l’ho visto piangere per la seconda volta nella mia vita.  Non voleva più ritornare in miniera. Lo convinsi solo perché gli mancavano 3 anni alla pensione, ma dovetti accompagnarlo  a  Cave in macchina ogni domenica sera, rientravo a Gemona  il lunedì mattina e andavo a riprenderlo il venerdì sera. Quando smise di lavorare, nel 79, ci fu una festa e lo congedarono con la  medaglia d’oro. Quella volta piansi io”.

La pensione.  Pieri, come molti altri friulani, si è dedicato negli ultimi anni a fare quello che gli piaceva e che purtroppo da giovane non era riuscito a fare: stare in famiglia, coltivare l’orto, allevare animali da cortile,…

La malattia. La moglie:Nel 1991 gli tolsero un polmone. Rimase 100 giorni in ospedale anche a seguito a una brutta infezione che non voleva guarire: dopo l’operazione ci furono, purtroppo, delle complicazioni, così Pietro dovette vivere l’ultimo periodo della sua vita in condizioni molto precarie. La fistola postoperatoria, mai rimarginata, esigeva medicazioni quotidiane e costringeva lui e i famigliari a vivere una situazione difficile. Una garza dimenticata nel torace durante una  medicazione, rischiò di causarne  la morte per infezione. Morì di silicosi nel febbraio del 1994. Solo nell’aprile del 1998, a 4 anni dalla morte gli è stato riconosciuto la malattia professionale: un riconoscimento “postumo”  per la tanta, troppa polvere che si era accumulata nei  polmoni.”

Ancora due ricordi del padre. Paolo mi racconta cheuna volta rientrando a Gemona dall’allora Iugoslavia, dove si era recato per fare compere a Bovec, in una osteria, si era imbattuto in vecchi minatori che conoscevano suo padre  e che  avevano condiviso con lui tante fatiche. Così racconta: “Iniziammo a parlare: la cosa che mi fece molto piacere è che avevano un buon ricordo di lui.”.

Una volta gli dissi: “papà i volares faa ativitat speleo (Papà vorrei fare attività di speleologo) ”. La risposta fu perentoria: “No! I soi stat avonde io sot cjere” (No! Sono stato io abbastanza sotto terra).

Conclusioni.
Una poesia. Pense e Maravee la dedica a chi per lavoro, ha dovuto  scambiare il cielo con la roccia.

Pietro Patat all’uscita della galleria

POESIA DEL MINATORE

Ecco la galleria, eccola,
guarda lì che bocca aperta
pronta pè ingollà tanti minatori,
succhialli e risputalli via spremuti.

Che bella fregatura, mondo ladro!
Tutto l’mì sangue trasformato in oro
dentro a le tasche dè commendatori
e i mì polmoni diventano pietra tutti
per me, tutti per me soltanto.

Autore ignoto

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1 comments

  1. Giuseppina Urbani in Piemonte

    Hola buenas tardes, aqui estoy con un “nudo en la garganta” al leer tantas historias d nuestra Glemone, que nosotros la dejamos en el siglo pasado (1951) Tengo nostalgia de nuestra bella citadella, che ora e’ propio una citta’. Vorrei che publicassero alguna foto de la escuela donde curse’, hasta el 4* grado, che non ricordo il nome, vagamente recuerdo che estaba cerca del Duomo y otras fotos de iglesias y alguna plaza, me acuerdo bien, de santa Agnese, que se iba a hacer la merienda de Pascuetta. Tambien algo de Godo y Piovega.
    Un saludo especial a mi cugino Roberto Urbani y a ustedes mucho exito en estas publicaciones. Mandi, mandi. FELICITACIONES/

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