La ricostruzione dei fatti con informazioni, documenti, articoli di giornale dell’epoca (la Patria e il Giornale) è stata possibile per il contributo di Forgiarini Italo, nipote di Nôle, Pieri Gii, Renato Candolini e Cesare Sabidussi. Li ringrazio di cuore. Apriamo il giornale « La Patria del Friuli» del 6 febbraio 1905.
Sabato 4 febbraio 1905, il ritrovamento del corpo Ad un’ora di cammino da Stalis, frazione del Comune di Gemona, su un fianco sinistro del monte Glemina si trovava il cosìddetto “Plan di Zucat” (valle del Glemineit), posizione per nulla pericolosa, circondata da piccoli boschi di noccioli, avente una estensione di circa 20 metri quadrati. In questo luogo, dopo molte ed accurate ricerche, fu trovato nel pomeriggio di sabato il cadavere della guardia campestre comunale Domenico Copetti, di anni 42, di Stalis. Il povero morto giaceva supino sulla neve: teneva una mano sul petto e l’altra sotto il dorso; la faccia, il collo ed una mano presentavano alcune ferite. Il berretto del Copetti si trovava a circa 3 metri di distanza dal suo corpo e il pastrano a circa 6 metri. Intorno al cadavere la neve era macchiata di sangue. Questi in succinto i primi particolari del fatto, che tanta impressione produsse in paese. L’articolo prosegue ripercorrendo l’accaduto.
Venerdì 3 febbraio. La salita sul Gemine del Copetti con Strassemalte Sentiamo cosa disse Elia Francesco, detto Strassemalte, muratore di Gemona, che aveva accompagnato Meni Nôle in Glemine. “Fra me e la guardia Copetti – cominciò l’Elia – era corso l’accordo di trovarsi alla mattina di venerdì, per recarci assieme alla caccia alla volpe, sul monte Glemina. In questo giorno, dunque, mi portai dal Copetti e verso le 7 e mezza del mattino partimmo prendendo la via che conduce al monte”. “Giunti che fummo al bosco del “Fise”, il Copetti vide sull’alto della montagna un individuo con un carico sulle spalle. Il Copetti estrasse il binocolo e lo puntò verso l’alto, là dove si scorgeva l’uomo con il carico sulle spalle, ma non lo poté conoscere”. Dopo pochi minuti di ferrata – continuò l’Elia – proseguimmo assieme fino al “troi dal predi”: qui ci dividemmo ed io mi internai nei boschi. Cominciammo allora le ricerche per dare la caccia alle volpi. Non vedendone nessuna, ritornai indietro, mandai uno, due fischi, ma nessuno mi rispose. “Meni! … ‘ gridai con quanta voce avevo in corpo, ma nessuna voce rispose, neanche questa volta. Poi udii suonare le nove e presi da solo la discesa per far ritorno al paese, dovendo andare a scaricare botti di vino da certo Nobile. Ad un tratto intesi la voce del Copetti che mi chiamava. “Checo, dulà vastu?” “Ah sestu lì ? dopo tant che ti ai clamât? “Dulà vastu?” “La di Nobil, tu sâs.” Dîs a cjase che jo i vignarai jù par misdì, âstu capît?” e così ci lasciammo.
Le ricerche Nel tardo pomeriggio Copetti non era rincasato. La moglie sua era in angustie e insieme a Strassemalte lo cercarono sul monte. Passò la notte. L’indomani la moglie e Strassemalte si recarono a Montenars per verificare se Copetti vi avesse pernottato. Rientrarono passando per l’Orvenco, ma anche qui nulla.
La casa di Copetti, ovvero lo spaccato di una casa povera di Stalis in tempi magri. E’ una catapecchia non un’abitazione. In una cucina buia, priva di finestre, col focolare senza comignolo, immerse in un fumo turchino e denso si trovavano tre o quattro ragazze, rannicchiate intorno al fuoco, assieme a una donna attempata, una certa Valentina Cargnelutti (forse una vicina). La moglie del Copetti non si trovava in casa: era andata a Gemona, non sappiano per quale bisogna. Il «Giornale del Friuli» riporta: “Il povero Copetti abitava in una casetta di sua proprietà a circa 200 metri sopra Gemona, nella frazione di Stalis, casali sparsi lungo le falde del monte, a cui si accede per un erto sentiero”.
Il ritrovamento ”Deve sapere – disse la Cargnelutti – che il Copetti tiene con sé un giovanotto, un suo “fioç” (figlioccio), certo Giuseppe Armaron. Fu questi che, assieme a Francesco Elia, fece la triste scoperta. Partirono da Stalis prima del mezzodì di ieri e la povera vedova così li congedò”: “Se lu cjatais” disse “faseimi savê subit: vignît fûr lì dal Pic da S’ciale, jo us speti ta cort, e vualtris mi disarês”. Verso l’una del pomeriggio, un uomo si fece vedere sul punto del monte indicato e gridò: ‘Lu vin cjatât.”’ “Lu veiso cjatât?”, rispose la povera donna commossa dalla contentezza ma anche dal dolore, temendo una sventura. “Cemût po? ” “Ah, mal.” “Ce mal?” “Muart ” Un grido acutissimo, cui seguì straziante dirotto piangere. “Muart.” La Cargnelutti ci disse che il Copetti era buono, alieno da brighe o litigi, scrupoloso osservatore però dei suoi doveri. Per questo era mal visto da parecchi: taluno giungeva fino ad odiarlo, cosicché forse la sua morte fu la conseguenza di un atto d’infame vendetta.
Sabato notte, domenica 5 febbraio La salma fu vegliata in monte durante la notte da due guardie di finanza. La domenica fu trasportata al camposanto dove venne effettuata l’autopsia. Sulla tecnica l’articolo riporta gli esiti dell’autopsia: “Credesi che l’assassino abbia per prima cosa afferrato il collo della povera guardia e che, una volta atterrattala, l’abbia tenuta fissa al suolo con le ginocchia e che infine abbia menato con il calcio del fucile o altro corpo contundente sul corpo dell’infelice”.
Lunedì, 6 febbraio. Il funerale, la colletta, la vedova e gli orfani, le indagini Nel pomeriggio seguirono i funerali della guardia Domenico Copetti. Ad attestare l’esecrazione per l’efferato delitto, vi parteciparono tutta la scolaresca con i rispettivi insegnanti e la bandiera abbrunata, numerosi soci della Società Operaia con bandiera, l’arciprete don Giacomo Sclisizzo e tutto il clero di qui, la banda musicale della Società Operaia e gran parte della popolazione. Al cimitero diedero l’estremo vale alla vittima l’assessore avvocato Peressutti per il Municipio e l’avvocato Nais per la Società Operaia. Venne aperta una colletta per la famiglia dell’assassinato che lasciò la moglie e tre figli nella più desolante miseria. Degli o dell’omicida nessuna traccia: gli arrestati del giorno precedente (tutti del posto) furono rimessi in libertà: avrebbero tutti provato il loro alibi. Il Giornale riporta: “La famiglia era composta dalla moglie Maria Copetti-Cargnelutti, d’anni 42 e dei figli Maddalena di anni 13, una povera fanciulla con una gamba paralizzata, Giovanni di anni 8 e Maria di anni 3. Con essi pure abita certo Giuseppe Armaron d’anni 24, figlio adottivo del Copetti e che fece l’orribile scoperta del cadavere.” Tito Cancian, nel suo libro Un saluto a Gemona (pagg. 116 – 119), approfondisce in particolare il tema delle indagini.
La commemorazione in Comune (12 marzo 1905, domenica) Oratore, il segretario Capo, Tranquillo Mazzatta; si riportano alcuni paragrafi dell’intervento: “Penso che il povero Copetti rappresentava un Istituto; che la sua divisa copriva un mandato; che egli non era che un soldato del Comune da cui aveva riportato l’ordine severissimo della protezione dei boschi; che quell’arma che gli pendeva al fianco, congiunta all’autorità che gli proveniva dal servizio che gli era comandato, simboleggiava una funzione Comunale … Povero Nôle! Io lo chiamavo il re della foresta! Tipo asciutto, segaligno, ordinariamente inciprignito, con un concetto forse anche troppo pieno delle sue funzioni che spettavano a lui, si diede con lena all’adempimento del suo mandato, dimostrando uno zelo che a qualcuno parve eccessivo, una severità che a tal altro parve fiscale, dimodoché, si può asserire con certezza, che neppure lui nel suo regno fosse veramente tranquillo.
Commenti Forgiarini Italo, nipote di Nôle, mi ha parlato: – della tecnica dell’omicidio: l’assassino ha fatto sì che Domenico lo seguisse fino a un punto nascosto e coperto per tendere l’agguato; – della confessione dell’omicidio: in punto di morte un emigrato di Pers in Francia, confessò l’omicidio; ma la notizia, a sua detta, non è certa; – sui due fucili appesi sulla parete negli uffici dei Vigili Urbani: uno dei due è appartenuto al nonno. Pieri Gii ricorda che era opinione corrente che Meni Nôle avesse inflitto una multa a sua madre perché aveva tagliato legna su proprietà comunale; nell’occasione disse: “I sai che i scugnarai paiâle jo, ma i scuen dâte distès”. Renato Candolini, che mi fornisce l’intervento del Segretario in occasione della commemorazione, ricorda il profilo severo e rigoroso di Domenico Copetti. Meni Nôle, commenta Sabidussi Cesare, è, per quanto ne so, l’unico dipendente comunale “caduto nell’adempimento del dovere”, una persona che forse è fuori del tempo ma che, a mio modesto avviso, sarebbe ben più meritevole di citazione dei tanti, gemonesi e non gemonesi, ai quali sono state intitolate vie, piazze e parchi. Sabidussi mi consegna i testi degli scritti sui giornali d’epoca: la «Patria» e il «Giornale». Conclusioni Salendo a piedi per la strada del monte Cuarnàn o per il sentiero che sale dal “Crist dai Suviàis” oppure per il “Troi dai Cincent“ ci si imbatte, in “Sière“, in una Cappelletta chiamata “Crist di Sière” o “Crist di Nôle” in ricordo di Meni Nôle. Se passate di lì, ricordatevi di questo umile servitore del Comune di Gemona. Un pensiero o una preghiera.
Ma è vero che il caso verrà riaperto? Si, anche a seguito della pubblicazione di questa triste storia.