Una memoria scritta di Romano Urbani ricorda il fatto: “Congedatomi dall’esercito dopo il servizio militare , ai primi di febbraio del 1933 rientrai a Gemona ed incominciai a cercare lavoro, ma nel nostro paesello non c’era niente da fare. L’impresa Pittini aveva iniziato dei lavori a Bolzano ed io la contattai all’istante. Mi rispose subito positivamente , ma richiesero pure che la domanda di lavoro dovesse essere firmata dal Sindacato fascista degli edili di Bolzano; questo non accettò perché c’era disoccupazione in quel periodo, conseguenza della grande depressione mondiale iniziata nel 1929. Non potendo ritornare a Bolzano ed in mancanza d’altro, andai a piantare alberi per il rimboschimento del monte Chiampon…”. Insomma nell’inverno del 1933 iniziano i lavori.
Le fotografie scattate nel 1931 e gentilmente concesseci dalla Stazione Forestale di Gemona riprendono i tratti caratteristici di quell’ambiente prima dell’intervento: ghiaioni (gravons), stentate coperture prative e arbusti per lo più confinati nei posti più impervi (salici, pero corvino, ornielli e carpini). Insomma un paesaggio brullo e scarno che ben si accompagnava alla “durezza” di quel periodo. Nonostante ciò su quelle pendici si falciava ed erano ben 7 le mulattiere percorse das ogis che trasportavano a valle il foraggio.
Nella figura in alto, se ben vedete, si intravedono alcuni interventi preparatori : la pista che saliva fino ai 2 vivai (località chiamata successivamente ort botanic), posti sopra il Riul Fontanàt e l’annesso ricovero per il deposito delle attrezzature.
Le specie utilizzate nel rimboschimento sono il pino nero (65%) e il pino silvestre (25%). In misura minore il cipresso di lawson (a titolo sperimentale) e il larice, messo a dimora nelle parti più alte.
L’evoluzione naturale sta ora trasformando la pineta in un bosco misto di resinose e latifoglie autoctone (orniello, carpino,…). La maggiore biodiversità rende il bosco più resistente agli attacchi patogeni e produce un humus più fertile. I fenomeni erosivi sono ridotti e l’acqua scorre con maggiore lentezza a valle.
La composizione del bosco ha dei riflessi anche cromatici sul paesaggio: il manto di colore verde scuro (resinose) inizia a macchiarsi di verde chiaro (vegetazione spontanea di latifoglie), macchie che si accendono durante la stagione vegetativa e si infiammano con i colori dell’autunno.
Insomma un intervento ben riuscito e il concorso dell’uomo e della natura ha accelerato i tempo di copertura di superfici esposte all’azione degli eventi meteorici e la formazione di un ecosistema più complesso e stabile .
In molte altre zone i rimboschimenti sono avvenuti naturalmente andando a chiudere spazi che una volta erano aperti (prati, pascoli), influenzando così la composizione floristica e faunistica e l’ecologia dei luoghi.
Il verde nel paesaggio urbano e periurbano.
Gemona è più verde, nella componente arborea, di un tempo. Le alberature stradali costituiscono un reticolo verde che mitiga la calura estiva e rende più dolce e colorato il paesaggio: via Dante con i suoi bagolari, via Bariglaria con i tigli, via Bersaglio con i Platani, via 4 novembre e via Udine con gli ippocastani e via Sacra con i cipressi. La vegetazione arborea è diffusa anche negli orti e nei giardini. In alcuni casi però le piante mal si sposano tra di loro e il clima di Gemona. Si può vedere l’abete rosso (peç) accanto alle palme: le piante ne soffrono, sono più vulnerabili alle malattie e invecchiano prima. Anche l’estetica ne soffre. La campagna che ancora “resiste” al cemento è più alberata di un tempo: specie autoctone crescono in prossimità dei corsi d’acqua, lungo i confini di proprietà e negli incolti, soprattutto nella parte bassa che confina con Artegna e Buia. Le temperature medie più elevate, soprattutto quelle massime estive e la riduzione del freddo invernale favoriscono la coltivazione dell’ulivo, specie termofila, che inizia a competere con la vite….
Le specie vegetali “aliene”
Perché aliene? Lo chiedo a Giuliano Mainardis, botanico di Venzone. “Dagli studi sulla conservazione e protezione della biodiversità risulta che, dalla scoperta dell’America ad oggi, ma soprattutto negli ultimi 50 anni, in Italia siano arrivate oltre un migliaio di entità vegetali non autoctone, e quindi esotiche, aliene e perlopiù invasive, ovvero in grado di riprodursi e diffondersi rapidamente su aree molto vaste a scapito di specie native locali. Esse rappresentano ca. il 13,4% delle entità censite per la flora nazionale. La loro introduzione è avvenuta soprattutto in maniera intenzionale/volontaria (scopi agricoli, vivaistici, amatoriali, ecc.) e solo per 400 specie per cause accidentali. In Friuli, da sempre coinvolto nel passaggio di piante, animali e genti, accanto alle classiche piante legnose introdotte fino dal 1600 (ailanto, robinia, amorfa) si sono affermate molte neofite invasive, per lo più erbacee. Anche nel Gemonese tra questi ospiti indesiderati (Fallopia japonica, Ambrosia sp., Solidago gigantea, Helianthus tuberosus, Impatiens sp.,ecc.) compaiono anche specie dannose perché spesso allergogene o velenose come Senecio inaequidens, una composita arrivata da noi dal Sudafrica dopo il 1970 che, fruttificando in continuazione da marzo a dicembre, in un quarantina d’anni ha colonizzato gran parte delle macerie e delle discariche, dagli alvei dei fiumi ai ghiaioni e alle frane submontane.
Cosa si può prevedere per il futuro? “Tempi abbastanza lenti per la spontaneizzazione, ma imprevedibili per quanto riguarda l’identità delle nuove specie. Forse un aumento delle termofile ed euriterme (per effetto dell’eventuale aumento della Temperatura media mondiale) senza distinzione tra specie boreali o australi.
Considerazioni conclusive
- I fatti raccontati evidenziano lo stretto rapporto tra l’uomo, la vegetazione e il territorio, un rapporto coevolutivo che risente, come abbiamo visto di scelte e pratiche locali ma anche di fenomeni globali quali il riscaldamento climatico e la mobilità globale di uomini, merci e …semi.
- C’è una comunanza tra la memoria di Romano Urbani e la situazione attuale? Si, la crisi. La natura può essere un fattore di sviluppo? Si, se investiamo nel capitale naturale, nel mantenimento della straordinaria capacità della natura di offrire servizi gratuiti. Con un doppio dividendo: creare lavoro qualificato, soprattutto giovanile e ridurre o prevenire il degrado ambientale che si riflette poi sulla vita e la sopravvivenza di persone e popoli.